mercoledì 30 dicembre 2015

Se è fine anno, si fanno gli auguri, perciò...


Copertina (del grande Luca Morandi) del primo racconto del mio commissario

Sono un po' di giorni che mi frullano per la testa i personaggi di una racconto lungo iniziato a scrivere ormai 3-4 anni fa, come se mi dicessero che vogliono ricominciare a fare la loro sceneggiata.
Così sono andato a riaprire stamattina il file e gli ho datto una lettura.
Oddio! Una scrittura quasi illeggibile per i miei criteri attuali, frasi troppo prolisse, piene di descrizioni inutili... Brrrr! E non sono brividi di freddo, visto che la TV dice che fa troppo caldo per il periodo, ecc. ecc. .
Però la storia mi piace ancora, almeno andando a rileggere il plot che scrissi allora.
Così ho pensato di estrapolare un brano dal racconto e proporvelo come post di fine anno.
È bene precisare alcune cose, visto che si tratta di parte di capitolo. La scena si svolge al Libro-Caffè, un locale che compare anche nel primo racconto lungo col commissario Bacone scritto a suo tempo. Così come si ritrova il conte Spadino, che questa volta in qualche modo è al centro della storia.
Un paio di curiosità. Nel brano che, spero, leggerete si nominano due autori emergenti: Silvestri e Geta. Sì, sono proprio loro, Glauco e Ariano, che al momento della stesura del racconto erano molto attivi nelle pubblicazioni.
Una seconda curiosità. Come forse sapete, con Ariano abbiamo pubblicato un racconto a quattro mani, Arcani versus Bacone, in cui il mio commissario incontra il suo detective privato salito al nord. Così avevo pensato di chiedere anche a Glauco, con cui al pari di Ariano abbiamo una conoscenza blogghistica da anni, di 'entrare' in qualche modo nella mia storia col suo investigatore privato Mauro Bianchi. E Glauco ha accettato, inviandomi già allora i due capitoli che riguardavano il suo personaggio. Purtroppo come ho detto la storia si è fermata già da un po', ma se dovessi in questo nuovo anno rimetterci mano, il posto per Mauro Bianchi resta sempre quello e potrò utilizzare il lavoro che Glauco ha fatto per me!
Insomma, come vedete sono riuscito a mettere insieme nell'ordine:
1. il post per gli auguri di fine anno
2. il post coi propositi futuri
3. il post con un piccolo cadeau.
Meglio di così!
Perciò auguri a tutti, estendibili a famiglia, amici, parentado e condominio. E per chi abita da solo in villa con fontane zampillanti: auguri ai pesci (se ci sono)!   

Lì al semaforo, ed era verde (titolo mooolto provvisorio)
 
“Ispettore!” l’interruppe una voce che gli parve sgraziata forse anche per la sua inopportunità in quel momento. E poi Bacone non era ispettore, anche se non teneva molto a quest’ultima cosa.
Ispettore, già qui questa mattina?” continuò l’uomo che doveva essere sulla soglia, da quello che poteva capire Bacone che sentiva la voce alla spalle.
Spadino stava parlando proprio con lui. E continuò:
“Non sapevo che anche lei fosse un abitueè di questo posto!” disse con un’enfasi forse eccessiva.
Spadino, nomignolo dovuto alla fattura e misura del naso, era lo zimbello di tutti. Foulard a collo nudo sotto una mise finto casual, e invece curata fin nei minimi particolari, a cominciare dalle Adidas nere con banda bianca alla suola.
I sdue non si erano mai parlati prima, quindi gli sembrava strano quell’approccio da vecchi conoscenti.
Beh, in verità in qualche modo si conoscevano, nel senso che il commissario  vedeva il conte in quel locale ogni volta che ci andava. Spadino, infatti, aveva fatto del Libro-Caffè il suo quartier generale. Tuttavia non avevano mai avuto l'occasione di rivolgersi la parola.
La chiacchierata con la ragazza aveva messo Bacone di buon umore, così invitò l’uomo a sedersi al suo tavolo.
“Buongiorno… ” gli rimase la frase a metà perché si rese conto di non conoscere il suo vero nome. Si alzò quel tanto che bastava per essere cortese e allungargli la mano. “Prego, si accomodi pure al tavolo con me!”.
Il conte non era abituato a quella cortesia e per un attimo ristette.
Poi:
“Ma certo! Grazie!”
Gli occhi dell’uomo dicevano che quel giorno sarebbe rimasto indelebile nella sua memoria.
“Posso offrire qualcosa?” fece Bacone che si stava chiedendo di cosa avrebbe potuto parlare con Spadino ed era già pentito dell’invito: si era rovinato una rara mattinata di relax.
“Un caffè, grazie. Ma mi deve promettere di poterla ricambiare appena possibile.”
Bacone fece un gesto di accondiscendenza con la mano e cercò un posto dove fissare gli occhi per non doversi mostrare imbarazzato.
A quel punto, Spadino stupì il commissario.
“Ah! ha preso Silvestri e Geta! Bene, ottima scelta! Dimostra coraggio, investire danaro in autori poco conosciuti. Ma con loro va sul sicuro, non se ne pentirà. D’altra parte oggi non te la cavi con meno di dodici quindici euro per un libro di un centinaio di pagine. E sempre sorvolando sul contenuto. Non capisco come si vuole che la gente legga se poi i libri hanno questi prezzi. Inaudito!”
Bacone si disse che dietro quel naso il conte Spadino (ancora non ne ricordava il nome) non ragionava poi male.
“Ha perfettamente ragione” rispose. “Quando vengo in libreria guardo sempre prima il risvolto col prezzo e il più delle volte mi passa persino la voglia di sfogliarlo per vedere di cosa tratta.”
“Oppure per evitare di doversi vietare di acquistare qualcosa che potrebbe piacere” concluse l’uomo.
Bacone cominciava ad apprezzare quella compagnia, anche se il suo ospite continuava a girare la testa di qua e di la. Era un vezzo del conte quel movimento, un gesto che tutti conoscevano; e ne conoscevano anche il motivo: vedere se la sua presenza era stata notata.
“Sa,” disse abbassando la voce tutto d’un tratto, spingendosi verso il commissario, “me l’hanno ammazzata.”
In quel momento un’altra ragazza in nero, non Patrizia, era arrivata a portare il caffè del conte.
Il silenzio che scese servì a Bacone per assorbire quell’informazione così improvvisa e imprevista.
Anche dopo che la cameriera fu andata via, nessuno dei due uomini fiatò per qualche secondo. Entrambi sembravano persi nei propri pensieri.
Il conte Spadino aveva l’aria soddisfatta di chi si era tolto un peso, e aspettava che il commissario ribattesse qualcosa, qualunque cosa.
Bacone, dal canto suo, cercava di collocare logicamente quella frase. La sua mente da poliziotto aveva percepito perfettamente la parola chiave: ammazzata. Doveva considerare quelle parole letteralmente? Una notizia di reato, insomma? A cosa poteva riferirsi quell’uomo che era entrato nel bar come un semplice scocciatore e si stava trasformando in un caso?
Il commissario prese l’iniziativa:
“In che senso, scusi, gliel’hanno ammazzata?”
Guarino Teti (ora Bacone ricordava il nome) capì che la sua risposta poteva essere il preludio alla possibilità di togliere il coperchio a cose della sua vita che nessuno sapeva o voleva che si sapessero.
I suoi occhi, ora, non riuscivano a trattenere il mondo che girava all’impazzata nella sua testa. Alla fine, però:
“Niente, ispettore.”
Bacone rimase interdetto.
“Come niente… ?”
“Lo sanno tutti che sono un po’ pazzo. E a volte nella mia testa” e così dicendo si picchiettò la tempia destra “vedo e sento cose che non esistono.”
Guarino Teti si era accomodato al meglio sulla sedia da regista e aveva preso la tazzina col caffè.
Bacone invece rimase a fissare la sua di tazza, coll’orzo all’anice che ormai doveva essersi freddato. Poi:
“In verità non sempre quello che abbiamo in testa sono solo fantasie. Ma se lei pensa questo… ”
“Sì, ispettore, è meglio per tutti che siano fantasie, mi creda. La ringrazio molto per la cortesia d’avermi ascoltato e per il caffè. È difficile trovare qualcuno che accetta di parlare con Spadino solo per il gusto di farlo e non solo per raccontarlo in giro. Quando ha voglia di fare due chiacchiere o scopre qualche nuovo premio Nobel per la letteratura in fasce, sa dove trovarmi” e indicò col gesto della mano la sala in cui si trovavano.
Il conte terminò il caffè, prese il cappello a tesa larga che aveva poggiato sulla sedia vuota alla sua sinistra e si alzò tendendo la mano al commissario.
Bacone si alzò a sua volta, ricambiando il saluto:
“Anche lei sa dove trovarmi, specie se ha qualche altra fantasia che le frulla per la testa.”
Spadino girò con lo sguardo per la saletta e si rese conto che era vuota. Poi con fare deciso uscì dal locale e scomparve dalla vista del commissario.
Bacone rimase ancora un po’ a rigirarsi tra le mani i due libri che aveva preso in visione, ma la sua testa era rimasta a quel: me l’hanno ammazzata

Il beneaugurante Oste Juan

giovedì 24 dicembre 2015

E per finire...

Qua siamo troooppo avanti!

... il nuovo anno lo preferite ‘splendido’, 'radioso’, 'buono’ o vi accontentate di quello che c'è?
Natale invece mi è rimasto solo 'gioioso’…

Ah, se potete, non sparate botti a capodanno.
Non per quella questione dei cani e dei gatti che si spaventano, ma perché ogni anno decine di persone (soprattutto bambini!) restano mutilati o muoiono.
Poi fate come volete...

L'augurante Oste Juan
 

venerdì 11 dicembre 2015

Mia figlia è una zoccola (Racconto)



PREMESSA.
Lo spunto per questo breve racconto è venuto dalla telefonata -non si sa fino a che punto vera- di un ascoltatore di un programma a Radio24. Tutto il resto della narrazione e i personaggi sono farina, magari un po' avariata, del mio sacco.





Mia figlia è una zoccola

Mia figlia si chiama Gabriella, ha 32 anni ed è una zoccola.
Nel senso che lo fa per mestiere.
Vi racconto com’è andata.
Finita la scuola Gabriella cominciò ad andare a bottega da una manicure, imparò e si fece una clientela sua.
Andava casa per casa, con la sua valigetta piena di smalti, limette e creme e si prendeva cura delle mani delle casalinghe che non si potevano permettere un negozio specializzato ma non volevano rinunciare a tenersi in ordine.
Gabriella imparò anche a dipingere le unghie di tanti colori e con tanti disegni, quell’arte che non mi ricordo come si chiama.
Era molto brava nel suo lavoro e ben presto cominciò anche a ricevere a casa molte clienti.
La nostra casa non è molto grande: un tinellino con annessa cucina, due stanze da letto e un bagno; la tipica casa anni ’60 da 70-80 mq.
Ma per Gabriella, io e Monica, mia moglie, abbiamo rinunciato anche al tinello, pur di lasciarle lo spazio per lavorare.
Gabriella non ha mai avuto tempo per altro che per il lavoro, ha sempre detto che quando avrà messo abbastanza soldi da parte penserà a cercarsi un marito e a sposarsi. Ma evidentemente finora non c’è riuscita.
Poi un giorno la Giulia, la sua amica del cuore di quando andavano a scuola, è venuta a trovarla e si sono chiuse in camera di Gabriella a parlare, e parlavano fitto fitto che non si riusciva a capire niente, anche se la porta della camera c’ha il vetro come tutte le porte delle case degli anni ’60.
Quando dopo più di un’ora sono uscite, Gabriella era molto contenta e anche la Giulia sembrava soddisfatta.
Monica, mia moglie, preparò un the e lo servì con biscotti fatti in casa; ci sedemmo attorno al tavolo e ricordammo insieme tutte le marachelle che la Giulia e Gabriella avevano fatto da piccole. Ridevano e celiavano come ai vecchi tempi ed era un piacere guardarle così felici e serene.
Poi la Giulia si alzò e ci salutò abbracciandoci tutti e dicendo che si trasferiva in città, dove aveva trovato un buon posto, perché ormai lì in paese non aveva più possibilità di migliorare nel suo lavoro.
A cena chiedemmo a Gabriella cosa le aveva raccontato l’amica e quale fosse il lavoro della Giulia; ma lei rispose solo che era un lavoro molto remunerativo e non costava neanche molta fatica.
Dopo qualche giorno bussarono alla porta e un giovane lungo lungo e con un paio di stivali da cowboy chiese di Gabry.
Ci misi un po’ a capire che Gabry in effetti era Gabriella, ma fui contento che ora mia figlia avesse anche una clientela maschile.
Allora Gabriella portò il cliente con gli stivali in camera sua e si chiuse a chiave. Dopo una mezz’ora venne fuori col ragazzo e l’accompagnò alla porta, quindi ci disse che da ora in poi preferiva ricevere i clienti in camera sua invece che nel tinellino, perché aveva capito che la gente è più propensa a parlare delle cose proprie quando è in intimità, e se la gente sa di potersi confidare si sente più a suo agio.
La cosa strana fu però che se il cliente era uomo lo riceveva in camera e se era donna (ma ne venivano sempre meno… ) la serviva nel tinellino.
Monica, mia moglie, cominciò ad avere qualche dubbio su quello che stava succedendo, finché una sera, quando ormai tutti i clienti erano maschi e Gabriella lavorava fino a notte alta, la prese in disparte.
Parlarono in camera da letto nostra, fitto fitto e io non capivo niente di cosa si stavano dicendo, anche se la porta della camera c’ha il vetro come tutte le porte delle case degli anni ’60.
Poi Monica e Gabriella vennero fuori e mi parlarono.
La Giulia, raccontò Gabriella, in verità faceva un lavoro particolare: era una zoccola ed era andata in città perché lì c’erano molte più opportunità di trovare bei giovanotti in cerca di giovani ragazze ben disposte. Così aveva pensato, in nome della loro vecchia amicizia, di lasciare a lei i suoi clienti invece che abbandonarli a chissacchì: quando era possibile fare un favore… .
E così Gabriella era diventata Gabry con tutti gli annessi e connessi del caso.
Mentre mia figlia raccontava, mia moglie sorrideva e anzi sembrava partecipare alle parole di Gabriella, con cenni della testa e delle mani come volesse spiegare lei stessa.
A me quei discorsi facevano un po’ impressione… non so’ spiegare… mi pareva che c’era qualcosa di sbagliato, come quando vedi, ad esempio, un muro pitturato di blu cobalto e non capisci perché hai l’impressione che ci sia qualcosa che non vada. Ma poiché vedevo Gabriella (ora diventata Gabry) e mia moglie contente e serene, anch’io mi tranquillizai e ci facemmo tutti una bella risata e Monica, mia moglie, preparò una bella pasta aglio olio e peperoncino, davanti alla quale per la mia famiglia iniziò un nuovo periodo di pace e prosperità.
Infatti Gabriella, che evidentemente doveva essere molto brava nel suo lavoro, cominciò a incassare sempre più soldi e a riempire me e mia moglie di regali anche al di fuori delle feste e delle ricorrenze.
Io potei comprare l’auto nuova; Monica, mia moglie, si fece la pelliccia e cominciò ad andare dall’estetista, mentre prima era Gabriella che la serviva. E poi i sanitari del bagno nuovi, l’impianto stereo che si sentiva davvero bene (questo veramente era stata una idea di Gabriella che diceva che con un sottofondo musicale l’attesa dei clienti era più rilassante – un po’ come dal dentista); e, naturalmente, un nuovo salottino in stile moderno.
Tutto procedeva nel migliore dei modi; la mia casa, semplice e pulita, serviva egregiamente come luogo di lavoro di Gabry e i clienti erano sempre soddisfatti.
Una sera, era d’inverno e c’era un temporale che era iniziato al pomeriggio e ancora continuava a scaricare vagonate d’acqua sul paese, perciò nessuno era venuto a bussare alla nostra porta. Così Monica, mia moglie, preparò un sugo alle melanzane, di quelli che sa fare lei, e ci condì tre bei piatti di tagliatelle, spolverandoli abbondantemente di parmigiano e aprendo una bottiglia di rosso corposo delle sue colline astigiane. Conserve fatte in casa e frutta di stagione completavano l’intima cenetta.
Eravamo ormai alla fine quando trillò il telefonino.
Gabriella (per noi aveva conservato il suo nome da bambina) appena vide il nome sul display s’illuminò in viso e corse a rispondere dalla sua camera.
Parlò fitto fitto per una buona mezz’ora e alla fine tornò a tavola e ci disse che la Giulia si stava trasferendo in una città più grande e che le lasciava tutti i suoi clienti che aveva adesso lì.
Certo per Gabriella era un bel salto di qualità, poter fare strada nella città, far vedere quant’era brava. Era solo dispiaciuta di dover abbandonare i clienti che aveva a casa.
Qualche giorno dopo la partenza di Gabriella, seduto sul divano di pelle a leggere il giornale, guardavo Monica, mia moglie, che in babydoll fucsia si passava non so quale crema sulla pelle delle braccia davanti allo specchio del bagno e quel movimento così aggraziato non solo mi fece venire certe idee interessate, ma anche alcune interessanti.
In fondo Monica aveva 55 anni molto ben portati e si sa che la donna a quell’età ha raggiunto una sua certa maturità anche per cose di cui è meglio non parlare in pubblico.
E così mi sovvennero le parole della Giulia: perché abbandonare i clienti a chissacchì? Ormai tutti conoscevano la casa, gli orari e di certo se la figlia era così brava, la mamma non sarebbe stata da meno, anzi avrebbe avuto quel guizzo in più d’esperienza…
Monica, mia moglie, fu ben contenta di quest’idea, che le permetteva anche di occupare le sue giornate ora che Gabriella era partita e non doveva badare più a lei.
Ma soprattutto la rendeva orgogliosa il fatto di portare anche lei dei soldi a casa e partecipare alle spese della famiglia.
E così eccovi spiegato perché mia figlia è una zoccola.
Ma ora ho scoperto che anche mia moglie ci sa fare.

Lo stuzzicoso Oste Juan

lunedì 7 dicembre 2015

Closer, un'italianissima cosa sfiziosa

E niente... se avete una ventina di minuti e volete vedere un buon prodotto italiano, a metà tra la fantascienza e l'ironia tipicamente nostrana, ecco Closer, un cortometraggio di un paio d'anni fa dagli stessi produttori di Dark Resurrection che ho scoperto per caso (sapete che non tratto mai argomenti su film, programmi tv ecc. ).
Non ho mai visto questo Dark Resurrection, non so' di cosa si tratta; per me i film di fantascienza sono ET, la serie di Spazio 1999, un paio di Star Wars e il classico Incontri ravvicinati del terzo grado. E qualche altra cosina dal piccolo schermo.
Ma questo Closer è bello, mi è piaciuto, e così, se vi va, guardatevelo; sennò amici come prima!








L'Oste Juan





sabato 5 dicembre 2015

Te piace 'o presepe?

Che c'azzecca la Brambilla col presepe?
Pare che la politica italiana abbia trovato finalmente un argomento che l’appassiona: il presepe. Gente che contrae matrimonio con rito celtico e poi corre a cantare inni cristiani fuori dai cancelli di una scuola non per chiedere strumenti didattici e carta igienica per i bambini, ma il presepe.
Al di là delle facili battute su tutto il polverone di queste ultime settimane, montato da chi non ha altri argomenti per passare le feste e avvicinarsi alle elezioni di primavera, una riflessione seria (almeno dal mio punto di vista) mi sento di farla.
Posso capire chi si preoccupa che i bambini non possano godere dei segni esteriori di una fede che gli viene imposta (almeno a quell’età), ma mi chiedo anche: finora chi si è preoccupato dei figli di quelle famiglie che cristiane o cattoliche non lo sono?
E non parlo dei mussulmani, che sono apparsi nella nostra società da pochi anni, ma dei credenti di tutte quelle fedi e quelle chiese (ad esempio evangeliche, riformate, testimoni di Geova) che nel presepe non si riconoscono, o che non capiscono perché un vescovo debba andare in una scuola prima di Natale a ‘benedire’ degli scolaretti osannanti.
Siamo una democrazia ufficialmente laica da una settantina d’anni eppure per decenni nessuno si è mai posto il problema di quei bambini a cui è stato negato il diritto a non farsi indottrinare da un prete o da una suora (e ora da un laico a tale compito istruito). Ancora nella stragrande maggioranaza delle scuole elementari non esistono alternative all’ora di religione cattolica, per cui i bambini devono entrare un’ora dopo o uscire un’ora prima senza che nessuno si preoccupi di come un bimbo di 6 anni si possa sentire fuori posto mentre gli altri sono già (o ancora) in classe e lui deve andare via.
Quando Francesco d’Assisi (che dopo aver fondato il suo ordine ne uscì perché era stato costretto a metterlo nelle mani della chiesa di Roma) ideò il presepe, lo fece perché era l’unico modo per rendere visibili i racconti del grande mistero della Nascita del Signore poiché non esisteva ancora la possibilità di mettere nelle mani di tutti un libro dei Vangeli. Era, insomma, un modo per far sì che soprattutto i poveri potessero contemplare la Parola del Signore fatta Carne.
Oggi, invece, il presepe (e lo dico con tutto il rispetto possibile) è ormai solo ‘una tradizione’ che dovrebbe solo ‘rimandare’ al mistero che rappresenta e invece lo sostituisce: abbiamo fatto il presepe quindi è Natale. Che poi nel presepe ci mettiamo anche Maradona o la Brambilla è... un mistero!
In modo provocatorio voglio concludere dicendo: meno male che sono arrivati questi ‘infedeli’ a scompaginare la nostra tranquilla e ordinata società perbenisticamente cattolica! Vuoi vedere che è arrivato il momento di cominciare a farsi seriamente  qualche domanda sui diritti delle minoranze religiose in Italia?




L'ostinato Oste Juan

martedì 1 dicembre 2015

Voglio vivere in bianco e nero

Io alle volte chiudo gli occhi e sogno.
E sogno tutto in bianco e nero.
Sogno storie dove i personaggi si chiamano Veronica e Cerutti Gino, Mario e il Riccardo che, a quanto dicono, da solo gioca al biliardo ed è il più simpatico che ci sia.
E poi c'è Vincenzina che non mette neanche più il foulard per andare in fabbrica... 
Sento musica ormai démodé e voci familiari provenire dal Quai des Orfèvres: "Torrance! Fammi portare un calvados!", "Certo Commissario!" o dal 132 di boulevard Richard-Lenoir: "Signora Maigret! Allora, il tuo innamorato oggi cosa ha fatto?", e Andreina Pagnani che si schermisce arrossendo: "Ma va... ma va... ".
Poi riapro gli occhi e mi torna la tristezza.
Forse sono anche io uno di quelli che... ?




Il triste e fuori posto Oste Juan

sabato 21 novembre 2015

Ho perso le parole...

Il bimbo ristette, lo sguardo era triste...
L'Oxford University Press ha stabilito che la parola di quest'anno... non è una parola. Ma una 'faccina'. Evvabbè, anche stavolta me ne farò una ragione.
Mi chiederete: che c'è di male in questo? In fondo da sempre le arti museali sostituiscono le parole e ammirare, ad esempio, la "Venere" di Botticelli o la creazione della Cappella Sistina sostituisce più di mille parole.
Certamente, ma se qualcuno ha voluto che ci esprimessimo anche attraverso le parole, ci sarà un motivo.
Bene, senza voler polemizzare e andare troppo per le lunghe, senza perdermi in analisi complicate, quello che volevo semplicemente dire con questo post è che, come dice il titolo, ho perso le parole.
Ho perso, e continuo a perdere, la capacità di esprimermi perché il mondo attorno a me si esprime sempre meno con le parole e sempre più con le faccine, le espressioni idiomatiche, gli acronimi, i xhè, i ki, i nn, gli inglesismi. Abbiamo creato addirittura un social, Twitter, dove ti devi sbrigare ad esprimere la tua idea altrimenti ti tagliano. Forse per questo i giovani d'oggi hanno idee corte, smozzicate, senza futuro?

Tutta questa roba sarà anche comoda, sarà il linguaggio del domani, anzi è già il linguaggio del presente, basta leggere un giornale o sbirciare nel telefonino del vicino sul tram.
Ma io sono attaccato alle parole, che roteano in bocca un attimo prima di uscire e materializzare il mio pensiero. Quando pronuncio la parola 'giusta' viene in me un senso di soddisfazione, pienezza.
Stamattina mi chiedevo quante parole ho perso in questi ultimi anni; quante sono le parole che usavo regolarmente e di cui ora non ricordo più neanche il significato.
Da bambino, facevo ancora la scuola elementare, mi piaceva passare i pomeriggi d'estate sul balcone di casa, al fresco, a sfogliare il vocabolario. Certo quella era l'età in cui dovevi uscire al mattino e tornare con le ginocchia sbucciate alla sera, altrimenti i compagni ti prendevano in giro; in cui dovevi girare perennemente col pallone sotto il braccio alla ricerca di uno slargo in cui mettere un paio di pietre come pali e cominciare a tirare qualche calcio in attesa che ragazzino come te ti vedessero e si aggregassero a te.
Io, invece, a 7 anni avevo già la tessera della biblioteca e quando mi chiedevano cosa desiderassi per qualche ricorrenza, rispondevo sempre: un libro.
Probabilmente non ho avuto un'infanzia 'normale' e oggi ne pago le conseguenze ma mi piace così: quando guardo il mondo lo vedo forse più di testa che di cuore (e questo non è un bene!) ma mi sembra di capirlo di più.
Perché l'importante non sono le parole che usi, ma cosa ci sta dietro. Però, al contempo, per svelare quello che vive davvero in una storia devi usare le parole giuste.
Non mi dilungo, so che avete tutti cose molto più importanti da fare che assistere al decadimento linguistico e cerebrale di un povero viandante, perciò mi chiedevo: ci sono parole che usate comunemente e che oggi vengono considerate desuete? (ecco! desueto potrebbe essere una di queste!). Oppure ci sono termini che usavate fino a qualche tempo fa e che ora non pronunciate o scrivete più?
Io potrei contribuire a questa specie di WWF delle parole con termini come 'celiare', 'ristare', 'rimbrotto'.
Vi racconto un aneddoto al riguardo, prima di chiudere. Imparai il significato di 'ristare' ascoltando Guccini. Era il 1972, avevo 12 anni, e un amico mi portò un disco appena pubblicato da ascoltare: "Radici" di Francesco Guccini. Non conoscevo Guccini e ancora non mi ero avvicinato veramente alla musica; ascoltavo, e distrattamente, solo quello che mandava la TV. Quell'incontro mi aprì un mondo: ero cullato da quella musica così diversa da tutte quelle che avevo ascoltato sino a quel momento; quelle parole non restavano nell'aria ma penetravano in me fino a risvegliarmi emozioni, sensazioni. Non capivo ancora bene che quella è la reazione 'normale' che la musica e le parole dovrebbero suscitare. Quando arrivai alla fine del disco, proprio all'ultimo brano, proprio all'ultima strofa, rimasi colpito da quelle parole:

Il bimbo ristette, lo sguardo era triste,
e gli occhi guardavano cose mai viste
e poi disse al vecchio con voce sognante:
"Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!"
 

Cosa voleva dire quella parola: "ristette"? Lì per lì non dissi niente, non volevo fare la figura dell'ignorante, ma appena rimasi solo corsi al mio amato vocabolario e ne cercai il significato.
Da quel giorno fui affascinato da quel verbo, "ristare", e lo uso ancora comunemente, spesso anche durante discussioni tra amici; e mi chiedo anche quante delle persone a cui l'ho detto nel corso degli anni ne hanno afferrato il senso.




L'Oste Juan