sabato 7 marzo 2015

Fra Dulbino e gli occhi dell'anima (racconto)

Luvino al tramonto

Aprii gli occhi.

C’era qualcosa che mi dava fastidio sotto la gamba.

Allungai la mano e trovai un ciuffetto d’aghi di pino che si era insinuato sotto il saio.

Lo presi e lo gettai via.

Gli altri ancora dormivano sparsi sotto gli alberi del boschetto, e il cielo si stava arrossando un po’ oltre le montagne. L’acqua del lago era immobile e scura; mi dava sicurezza.

Ringraziai Nostro Signore Gesù Cristo per essere morto e risorto per la nostra salvezza e recitai un pater, ave e gloria.

Fate Francesco dice che non dobbiamo recitare queste preghiere per abitudine ma perché sappiamo quello che stiamo dicendo e ne siamo convinti.

Ma anche la coscienza vuole la sua parte e io le ho sempre recitate appena alzato e prima di addormentarmi.

Mi crogiolavo ancora nel ricordo del sogno appena fatto.

Ero sulle rive del lago, a pochi passi da casa mia e giocavo a fare rimbalzare i ciottoli sull’acqua.

Ogni volta che la vita di fraternità (come la chiama Francesco) si fa pesante io scappo con la mente a quell’acqua, al tepore del sole in primavera, al luccichio abbagliante d’estate.

Poi, nel sogno, guidavo una di quelle chiatte di legno che vanno da una riva all’altra del lago a portare persone e animali.

Quante volte da bambino ho immaginato di farlo! Mi vedevo con un lungo ramo in mano a far muovere la chiatta, a spingere con forza mentre scambiavo chiacchiere col pastore che trasportava due pecore o col contadino che teneva stretta a se’ una sacca piena di verdura odorosa.

Mi girai per un rumore poco dietro di me: qualcuno si era alzato e si era allontanato dietro gli alberi; evidentemente doveva vuotare la vescica.

Quando il rumore che mi ero aspettato terminò, comparve frate Filippo; venne in riva al lago e sedette vicino a me.

“Già sveglio, fratello?” mi chiese.

“Si, voglio godere il più possibile dell’aria di casa mia, del mio lago. È quasi un rifugio per me… “

“Ti capisco, fra Dulbino. Anche a me manca la mia città quando siamo lontani: le colline dolci e profumate, gli ulivi argentati… immagino come dev’essere per te che ci vieni così poco spesso! Ma io, grazie a Dio, sono quasi sempre a casa, specie da quando frate Francesco mi ha affidato le sorelle povere di Chiara.”

Frate Francesco, infatti, aveva nominato Filippo visitatore del monastero di San Damiano, dove Chiara e le sue consorelle risiedevano. E poiché egli aveva una tal dolcezza e maestria nel parlare di Dio e nello spiegare le Scritture pur senza averle mai studiate, gli aveva dato anche l’incarico di predicatore presso di loro.

“Sì, è così, hai ragione. Ma dov’è Francesco? L’hai visto?”

“Iersera si era disteso vicino frate Egidio, visto che nessun altro sopporta il suo russare. Ma poi stamane non l’ho visto. Sai quanto lui dorma poco di notte e di come la passi a pregare.”

“Ti posso fare una domanda, fra Filippo?”

“Certamente, Dulbino!”

“Vieni, camminiamo lungo la riva, non voglio svegliare i fratelli e… non voglio che sentano i nostri discorsi.”

Anche se faceva freddo a quell’ora dell’alba, perché il sole non era ancora penetrato nella vallata, camminavo coi piedi nell’acqua. Vedevo la mia Luvino ancora addormentata, ma già qualche rumore  cominciava a sentirsi.

“Ma tu che lo conosci sin dall’inizio, che idea ti sei fatto di frate Francesco?” chiesi.

Frate Filippo dapprima sembrò stranito dalla mia domanda, poi fece qualche smorfia come se stesse rimuginando.

“Sai, anch’io me lo sono chiesto diverse volte, e non ho mai saputo rispondere.”

Frate Filippo si fermò, ed io con lui.

“A volte mi sembra di avere davanti un santo o un angelo per quel che dice e fa e un minuto dopo lo vedi correre come un pazzo in un campo o gettarsi addosso ad un lebbroso per proteggerlo dal freddo. Altre volte gli senti dire certe parole che qualsiasi sacerdote prenderebbe come eresie, come quando ha detto che Dio non vuole che le nostre sorelle stiano chiuse in clausura, ma che anche loro dovrebbero andarsene libere per il mondo come noi maschi ad annunziare che Gesù è morto e risorto per tutti.”

“Hai ragione, frate Filippo! Anch’io ho pensato la stessa cosa. Mi ricordo di quella volta che salì sul tetto di quella casetta che i frati si erano costruiti per avere un riparo, e lo distrusse urlando che sorella povertà non lo voleva. E poi alla sera li ammaestrò dolcemente sull’amore fraterno.”

Riprendemmo a camminare.

A qualche passo da noi un ragazzo era fermo sulla riva. Ci vide arrivare e si volse a guardarci.

Lo conoscevo di vista: quando ero andato via per seguire Francesco era ancora quasi un bambino e giocava col mio fratellino a lanciarsi in acqua dai rami del grosso salice che c’è davanti alla chiesa.

“Pace a te, fratello!” disse Filippo.

Gervasio, ricordavo ora il suo nome, alzò una mano a salutare, ma non aprì bocca.

“Sei Gervasio, vero? Io sono Dulbino, il fratello di Giovanni, con cui giocavi da piccolo.”

“Ah, Giovanni, certo! E tu sei Dulbino , sì, sì… mi ricordo. Dov’è ora tuo fratello? Non lo vedo da quando partì con tuo padre e tua madre.”

“Non lo so, Gervasio. Nessuno ha saputo dirmi niente. Quando sono tornato qui la volta scorsa non c’erano già più; mi hanno detto che sono andati oltre le montagne, di la’” risposi, facendo segno a nord.

“Tua madre ha sofferto molto quando sei andato via, Dulbino, anche se non ti ha mai detto niente. Vi chiamano “i pazzi”, sapete, perché andate dietro a quello che sembra un pazzo.”

Io e frate Filippo ci guardammo quasi con imbarazzo, anche se di imbarazzante non c’era niente. Ma vallo a spiegare a chi non sa come viviamo e cosa facciamo.

“Eh… “ dissi, “le mamme sono apprensive, hanno paura di tutto e vorrebbero sempre che il proprio figlio crescesse sotto le loro gonne. Ma io ho trovato la mia vita insieme a loro: gioia nel Signore, semplicità di vita, fraternità.”

“… e camminare scalzi e morire di fame e di freddo” rispose Gervasio indicando il nostro vestire.

“Non si può avere sempre tutto ciò che si vuole, perché non tutto è veramente buono per noi e la nostra anima!”

Udimmo queste parole venire da dietro di noi e ci voltammo.

Francesco stava arrivando di corsa da mezzo al boschetto.

“Pace, fratelli!” esclamò ansando e risistemando il saio che era andato un po’ per i fatti suoi.

“Francesco!” disse fra Filippo. “Dov’eri?”

“Avevo una missione da compiere stanotte, di quelle che richiedono che ci sia solo io.”

“Lui è Francesco” dissi rivolto a Gervasio. “È il nostro fratello maggiore, il pazzo per il quale sono diventato anch’io pazzo” ammiccai.

“Cos’è questa cosa del pazzo?” chiese Francesco divertito.

“È che non mi sembra normale quello che fate, e non solo a me.”

“Ed è solo per questo che la gente pensa che siamo pazzi?” ribatté Francesco.

“Beh, non mi sembra normale col freddo e il gelo andare in giro così poco vestiti, qualcuno anche scalzo, dormire all’aperto senza avere una casa.”

“Tu che mestiere fai” chiese Francesco a Gervasio.

“Intreccio cestini in vimini, riparo qualcosa che si rompe, cose così insomma.”

“E per fare questo hai bisogno di un posto dove stare, dove la gente ti può venire a cercare. Hai bisogno di una casa dove ripararti e dormire, vero?”

“Certamente!”

“Noi, invece, per fare il nostro ‘mestiere’ abbiamo bisogno di… non aver bisogno di niente! Anzi, ogni cosa che possediamo ci distrae da quello che abbiamo scelto di fare. Il nostro mestiere è andare dalla gente e dire loro: ‘sei figlio di Dio! Rialzati e cammina a testa alta, rendi onore al Padre tuo che è nei Cieli!’”

“E come fate per le cose che vi servono: mangiare, vestirvi, dormire?”

“Abbiamo tanti servitori che neanche te li immagini!”

Io e frate Filippo a questo punto guardammo Francesco con aria interrogativa. Lui allora si girò verso di noi e disse:

“Non vedete anche voi ogni volta uno stuolo di angeli mandati da nostro Padre ad accompagnare chi ci porta un tozzo di pane, un po’ di stoffa per farci un saio, una coperta per qualche fratello ammalato e infreddolito?”

Poi si volse nuovamente verso Gervasio e abbracciando con le mani il cielo e la terra disse:

“Vedi fratello, abbiamo tanti di quei servitori che nemmeno il papa o l’imperatore di Germania!”

“Ma come… “ provai a dire, ma non trovai altre parole, non capivo.

“Tu, Dulbino, fratello mio carissimo e amato, devi smettere di guardare con gli occhi del corpo e imparare a usare quelli dell’anima!”

Gervasio sembrò colpito da una frustata e si irrigidì, aggrottando le ciglia. Poi chiese rivolto a Francesco:

“E cosa vuol dire questo?”

Francesco gli si avvicinò e mise una mano sulla sua spalla; quindi prese a camminare con lui sulla riva.

E cominciò a dire:

“Vieni, fratello Gervasio, ti racconto una storia… .”

Poi la voce divenne un sussurro e tre paia di orme calcarono i ciottoli, allontanandosi.

L'oste Juan
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N.B.: Luvino è il nome di Luino al tempo di Dulbino e Francesco, intorno al 1200. Questo racconto fa parte della saga di fra Dulbino, fraticello (inventato) del primo gruppo di compagni di Francesco d'Assisi. Gli altri racconti li trovate qui, nel vecchio blog.

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