martedì 21 luglio 2015

... e buone vacanze!

Un autoscatto di speranza contro ogni realtà
Comunque alla fine mi sono arreso anch'io: il blog va in vacanza!
Lui.
Io c'ho ancora una decina di giorni di lavoro e poi faccio una settimana di vacanze. Ma prima di ferragosto rialzo la serranda.
E così colgo l'occasione (non badate a questa prosa aulica, è il caldo... ) per fare un piccolo punto della situazione blogghesca.
Devo dire che sono soddisfatto di come sta andando il nuovo blog. Ho molti meno contatti di prima, parlo di quando c'era Il Garage di Demetrio, ma ci sono stati alcuni post che mi hanno soddisfatto quanto a commenti e dibattiti scaturiti.
Sto riuscendo a dargli un'impostazione più diaristica, o meglio colloquiale, alla ricerca del mio passato, e vorrei continuare così.
Non faccio discorsi colti sull'importanza o la valenza di avere un blog, su come fare a 'sfondare' nel mondo blogghesco, ecc. . Queste cose le lascio agli addetti ai lavori che, più che un blog, sembrano gestire raccoglitori di 'cose', che ricercano solo l'effetto, che scrivono solo di sé stessi per dire: 'quanto sono bravo!'; 'avete visto che con questo post ho raggiunto mille mila contatti?'; 'ma lo sapete che il mio bog è al 12345° posto se digitate il suo nome su Google?'; 'no, no, non mi ringraziate, tutto questo lo faccio per voi che mi adorate e mi idolatrate'; e via discorrendo.
Non credete che ci siano blogger che scrivono solo questo?
Ci sono, ci sono... e sono veramente seguiti da mille mila contatti! Questo mi fa pensare che, fortunatamente, non diventerò mai uno bravo.
E proprio per questo non dovrò avere l'obbligo di pubblicare ogni giorno qualcosa altrimenti lo sponsor (si! questa gente ha lo sponsor che sgancia!) mi dice aurevoir e devo tornare a lavorare sul serio.
Mi sono sfogato? No, non ce l'ho con nessuno, ma vedere e leggere certe cose... Capisco il blogger che si impegna su un argomento, che ne sa veramente qualcosa, che cerca di condividere il suo sapere con gli altri; ma chi va avanti solo con: ieri ho avuto X commenti, che ne dite se cambio l'immagine di copertina?, oggi c'ho le mie cose, mi fa pena, sinceramente.
Penso che la sua vita sia fatta solo di queste cose, di cose che non riesce neanche lui ad afferrare, che si arrampica sugli specchi per mantenersi vivo anche nella realtà quotidiana.
Basta.
Ecco, allora il blog va in vacanza e, a meno di clamorose novità (tipo: mi hanno rapito gli alieni o cambio sesso e mi trasferisco in Islanda), ci risentiamo dopo ferragosto.
Prima di chiudere vorrei lasciare comunque una piccola traccia di riflessione: sapete che io sono cattivo e anche in mezzo a questo caldo afoso vi obbligo a far andare i neuroni! 
Guardavo stamane i giornali e vedevo due immagini, che non metto per motivi che capirete.
La prima è quella dell'esplosione causata da una kamikaze infiltrata in mezzo ad un gruppo di ragazzi ieri a Suruc, a quindici chilometri da Kobane dove progettavano di ricostruire una biblioteca e un centro culturale. Ragazzi che avevano in cuore una speranza e tanta voglia di viverla, di costruire invece che distruggere. E che hanno pagato con la loro vita proprio mentre gridavano al mondo quel che erano arrivati a fare. Sono quelli della foto di copertina fatta qualche istante prima di morire.
La seconda immagine è quella che ho visto sulla pagina facebook di un ragazzo, italiano questa volta, morto ammazzato in questi giorni e che ora tutti piangono per la sua bontà: il solito angelo che ora ci guarda da lassù. Bene, l'immagine è una vignetta in cui qualcuno mette una pistola in bocca ad un poliziotto, spara e il colpo provoca la fuoriuscita del suo cervello. Un'altra foto di questo profilo mostra un ragazzo a terra attorniato da siringhe, profillattici, pillole ecc. a mo' di corona sulla sua testa. E poi ancora una scritta sul muro molto offensiva nei riguardi di giudici e polizia. Non vado avanti.
Mi dispiace aver solo accostato i ragazzi di Suruc a quest'essere ignobile, il cui cervello doveva essere andato in pappa già da un po'.
Non dico altro e non mi interessa di attirarmi le ire di chi pensa che bisogna smettere di criticare, che in tutti c'è qualcosa di buono e che tutti hanno il diritto di esprimere quello che hanno in testa. Spero solo che, la vita, sia come quella dei ragazzi di Suruc, perché un mondo come descritto (e si presume vissuto) dal secondo tizio mi fa paura, anzi vomitare.
Vi lascio con qualcosa di più leggero adatto a queste ultime riflessioni. Buone vacanze a tutti! 


L'oste Juan

mercoledì 15 luglio 2015

Appello agli internauti: c'è qualcuno laffuori?

"Ma mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo proprio?"
Prendo in prestito la famosa battuta da "Ecce Bombo" di Nanni Moretti per mettere su carta (anzi su video) il mio dubbio amletico quotidiano: ma visto che tutti o quasi i blogger che seguo e mi seguono sono ormai in vacanza, che ci sto a fare io qua?
Cioè: se scrivo, qualcuno mi legge? c'è vita al di la del mio schermo?
Così ho pensato di scrivere queste righe anche per fare un giro e vedere se qualcuno ancora risponde.
Un po' come quando ci fu la pandemia, ricordate? Ognuno scriveva il suo diario presumendo che ci fosse ancora qualche sopravvissuto a leggere.
E a proposito di Survival Blog, anche se sono passati tanti anni (quanti?) ho ancora il mio bel racconto da pubblicare. Se avete memoria, almeno chi ha partecipato all'esperimento di Alex, al termine tutti o quasi i sopravvissuti hanno rimesso a posto le loro pagine, aggiunto qualcosa e dato alle stampe ebook con spin off, sequel, prequel e chi più ne ha più ne metta. Ho messo mano anch'io alla mia storia, ne ho scritto un finale ulteriore e... poi è tutto rimasto lì, in un file, abbandonato. Un po' perché sono fatto così: quando una cosa è finita, per me è finita, mi sembrerebbe una minestra riscaldata riproporla. Un po' perché ho cambiato genere di riferimento.
Con la nascita del Commissario Bacone ho iniziato a interessarmi di gialli, polizieschi, ecc. ecc., sia per la scrittura che per la lettura. Basta zombie e vampiri, esoterismo e stranitudini e invece via col mistero misterioso di delitti e investigazioni.
Ma la mia storia pandemica è sempre e comunque lì, bella e impacchettata, pronta per il lancio 'editoriale'.
Un aneddoto a questo proposito.
Quando, finita la pandemia letteraria, ci fu il boom (come dicevo) delle pubblicazioni postume l'amico blogger Luca Morandi, che di grafica è maestro, si offrì di fare la copertina ai vari ebook pandemici che venivano pubblicati. Poiché io non avevo intenzione di dar corso al mio, mentre invece avevo quasi terminato il primo (e finora unico) 'romanzo' del Commissario Bacone, chiesi a Luca se potevo barattare una compertina survivalista con una poliziesca. E Luca acconsentì, facendomi lo splendido regalo che avete visto in copertina.
Ora mi domando: mi deciderò a rilasciare (termine tecnico che usano quelli bravi!) la mia storia?
Può essere. Anzitutto perché ormai è lì finita e impacchettata. E poi perché il racconto inizia il 26 novembre 2015...
Ecco, qualcosina da mettere sotto i vostri denti l'ho messo insieme anche oggi, perciò penso di poter chiudere.
Ehi, laffuori, c'è qualcuno?

 



L'Oste Juan

lunedì 13 luglio 2015

L'odore dell'aria (racconto)



La testata del blog "Autori per il Giappone"
Questo racconto è stato scritto per una buona causa.
L'11 marzo 2011 un terremoto squassò il Giappone, colpendo anche la famosa centrale nucleare di Fukushima, e il mondo si mobilitò per raccogliere fondi.
Lara Manni ebbe l'idea di raccogliere in un sito racconti scritti da chiunque volesse, in modo gratuito, invitando poi il lettore a fare un'offerta a Save the Children.
Non so quanto alla fine si sia realmente raccolto, se qualcuno abbia letto il mio racconto e via dicendo; ma io ho scritto il mio col cuore e con l'anima.
So che anche Glauco ha dato il proprio contributo, almeno tra quelli che facevano (e forse ancora fanno) parte del glorioso blocco C, per usare la definizione coniata da Davide Mana.
Buona lettura.
L’ODORE DELL’ARIA



L’aria è strana, questa mattina.

Apro le persiane e l’alba abbraccia i mobili del mio salotto; un odore di attesa invade i miei polmoni quando spalanco la porta-finestra.

Ringrazio Dio, come tutte le mattine, che anche oggi il sole avvolge la mia casa; ma anche il sole è insolito, come se dovesse dare una brutta notizia.

Guardo l’orologio sul microonde.

Accendo la tele e, mentre ascolto distratto il Tg di un canale commerciale, faccio colazione.

Fette biscottate con marmellata, yogurt e una tazza d’orzo.

Sono anni che comincio così la giornata, anche se fa poco patriottico: io non sopporto proprio le verdure in salamoia.

Sento le notizie dal mondo, quelle sul traffico e poi un oroscopo mi dice quello che farò oggi: “Nezumi: la serata sarà densa di occasioni, dopo un giorno pieno di risultati positivi. Però ci vuole più impegno da parte tua che vuoi sempre il massimo ma col minimo sforzo.”

Chissà chi le scrive queste cose. A volte penso siano cicliche, anzi proprio riciclate: basta cominciare in un momento qualsiasi e andare avanti a inanellare sentenze. Poi, dopo un tot di tempo si ricomincia daccapo. Chi vuoi che si ricordi quello che gli hanno detto sei mesi prima?

L’aria però continua a farsi sempre più densa, più spessa e non è la nebbia che si accalca adesso attorno alle mura della mia casa. A quella sono abituato.

Spazzolo i denti come mi ha insegnato il dentista, mi lavo, mi vesto, controllo se in tasca ho tutte le chiavi che mi servono oggi: casa, macchina, ufficio.

Se è tutto OK posso andare. Anzi posso già anche tornare, perché le cose, da ora in avanti, avranno vita a sé, indipendentemente dalla mia coscienza e volontà.

Potrei anche starmene fermo sul soffitto a guardarmi vivere; tutto andrebbe come deve andare. Anche oggi sarà il solito giorno.

Il mio SUV partirà al primo colpo e mi avviserà se non avrò indossato le cinture di sicurezza. Naora, la segretaria, mi accoglierà con un “Dottore, buongiorno” accompagnato da un sorriso reduce dall’ultima sbiancatura dei denti. Poi le solite telefonate e il caffè delle dieci e trenta coi colleghi.

Intanto il SUV è partito appena ho premuto il pulsante START e un cicalino mi ha ricordato di allacciare la cintura.

Un altro pulsante fa abbassare il vetro dell’auto e una ventata di aria invade l’abitacolo. Continuo a pensare a quest’aria strana, unica nota stonata nella monotonia della giornata appena cominciata.

Ha l’odore di una donna incinta che sta per compiere i suoi giorni, se esiste un odore del genere.

Percorro il viale che porta in ufficio e dall’alto del mio fuoristrada guardo uomini e donne alle prese col loro tempo cronometrato. Cogli anni hanno imparato a guadagnare qualche secondo al passaggio pedonale, al semaforo.

Nessuno però sembra preoccupato di sentire che qualcosa sta per accadere; perché qualcosa accadrà, ne sono certo, lo capisco dall’odore dell’aria.

Il display del cruscotto mi ricorda che è venerdì, l’11 di febbraio.

Il venerdì è il giorno peggiore. Tutti alle quattordici si saluteranno; tutti si daranno appuntamento al lunedì successivo; tutti si augureranno un buon weekend. E ognuno sa che sarà identico a quello della settimana prima e anche del mese prima. Ma a nessuno importa. A nessuno passa per la testa che potrebbe fare qualcosa di diverso, di nuovo, magari anche solo ordinare un bento col pesce invece che con la solita carne, ad accompagnare il riso e le verdure sottaceto.

Ho già preso il caffè delle dieci e trenta e l’aperitivo delle dodici, un abitudine che un collega occidentale portò anni fa, e ho buttato lì un: ma non vi sembra che nell’aria c’è qualcosa di strano, oggi?

Sì, sbotta ridendo Gombei, le puzze che sgancia Kanbe! E tutti hanno riso, battendosi una pacca sulle ginocchia.

Ma io lo sento, percepisco che qualcosa si sta preparando.

“A lunedì, buon weekend.”

“Buona domenica.”

Sto lasciando anch’io l’ufficio per il fine settimana. Chiudo il portatile, lo metto in borsa e aspetto qualche secondo che arrivi Naora a salutare, come sempre.

“Arrivederci, Dottore, si diverta” ammicca dalla porta, e va via anche lei.

Anche oggi ogni cosa è quadrata, niente è andato fuori posto, tutto è stato in ordine, come i capelli della mia segretaria. Tutto tranne l’odore dell’aria.

Il viale a quest’ora è più libero e si cammina meglio.

Mi sto rilassando sul sedie avvolgente dell’auto, pronto a godermi l’inizio dei due giorni di riposo.

Dalla radio, che ho sintonizzato su un canale di classici anni 70, qualcuno ferma a metà una canzone.

“Interrompiamo le trasmissioni per un edizione speciale del giornale radio. L’Agenzia  Jiji Press ha appena lanciato un comunicato secondo cui alle 14 e 46, ora locale, un terremoto di gradi 8,9 della scala Richter ha colpito il Nord-Est del paese. Lanciato un allarme tsunami…”

Mi manca il respiro, così, all’improvviso.

Abbasso un po’ il finestrino e l’aria che entra non è più spessa e strana come è stata per tutta la giornata, oggi.

Adesso è cristallina. Sembra essersi liberata da un peso insopportabile.

venerdì 10 luglio 2015

Il cristomorto del Venerdì Santo



Aprendo vecchie cartelle e file dimenticati, trovo sempre pezzi della mia vita antica.
Antica e non vecchia, perché l'antico è finito in sé, perfetto, concluso; il vecchio è sorpassato, modificato, in fondo ormai inesistente.
Quello che segue è il primo capitolo di un racconto mai terminato di tantissimi anni fa, mi sembra fosse il '90-'92, ma che a rileggerlo ora potrebbe essere inserito benissimo in quel lavoro di autobiografia narrata che ho in testa da un po' e per cui, in fondo, ho aperto questo nuovo blog.
Ho ritrovato in queste righe un pezzo della mia Calabria, quasi un racconto delle sue radici profonde, quelle contadine, che continuano a vivere anche in questi tempi di internet, paytv e simili.
Ve le propongo così come sono, senza ritocchi. Probabilmente chi non conosce la Calabria faticherà a capire alcune cose, alcune situazioni, ma spiegare con una nota a fondo pagina avrebbe significato tradire la mia memoria e quella della mia gente.
Buona lettura!


Molti anni prima, era un tempo che minacciava pioggia.
La lunga processione, dietro la statua del cristomorto, quella del Venerdì Santo, non sembrava interessata a quello che attorno a lei accadeva. Ognuno col suo grande, irresolubile problema che nessun politico o prete poteva capire. Ognuno colla propria vacca che fa poco latte o il figlio handicappato che spacca tutto quando fuori gli ridono dietro e lo rincorrono e prendono a pietre.
Solo lui, il cristomorto del Venerdì Santo si potrebbe impietosire (perché si tratta sempre di avere pietà, mai di giustizia) se l'offerta al prete sarà adeguata, se la statua calerà perfettamente nella fossa scavata religiosamente, senza urtare ai bordi, se...
La lunga processione, silenziosa, camminava tra gli alberi d'arancio, ormai vuoti, cintati di filo spinato. In testa le sottane nere del parroco e dei chierichetti; dietro, dopo la varetta della statua, quelle delle donne. In fondo, perché tutti facessero finta di non vederli, gli uomini, duri e bruni di sole.
Giunsero nel luogo stabilito e tutto si fermò come ad un comando segreto. I portatori della varetta (quegli unici uomini che potevano ufficialmente essere presenti, anzi dovevano), vestiti di un lungo saio nero, avanzarono sino alla grande buca, qualcuno scese dentro con un salto, gli altri cominciarono ad imbracare di grosse funi la statua. Poi, agli ordini di un anziano con un gran mantello bianco sull'abito dei portatori, fecero scendere lentamente il cristomorto nella fossa. A quel punto tutti si fecero ai bordi e cominciarono, ordinatamente a turno, a lanciare monete e banconote sulla statua. Chi già aveva offerto si faceva da parte e altri arrivavano. Durò tutto una decina di minuti, nel più assoluto silenzio, che si poteva sentire la segheria lontana dopo il bosco.
Enrico domandò sottovoce al prete: "Non dici niente, una preghiera, qualcosa?"
Rispose don Lillo: "No, no, niente, che è qua che ci guadagno qualcosa, senno' addio."
Capì che il silenzio faceva parte del rito, perché tutto avvenisse nel modo tramandato per generazioni, quello che solo fa riuscire ogni desiderio della gente.
Enrico non avrebbe riso più di quella risposta dopo qualche anno, quando avrebbe capito il senso della vita di quella gente.
Anche quell'anno nessuna vacca fece più latte del solito e nessun figlio deforme guarì miracolosamente, ma ogni Venerdì Santo poteva essere quello buono e ci poteva essere un po' di pietà per qualcuno.
Aveva visto, Enrico, arrivare in paese qualche politico, grande o piccolo, importante o aspirante tale; nessuno però meritava il rispetto per il cristomorto del Venerdì Santo, forse perché il cristomorto era persona troppo seria per aprire bocca a promettere qualcosa se non quello sentito alla domenica a Messa e ripetuto dal parroco durante le prediche.
In questa terra di cui è impossibile raccontare storie liete o normali perché un dio o uomini più potenti di un dio hanno così stabilito, ogni paese ha il suo cristomorto del Venerdì Santo; in ogni paese il tempo si ferma al Venerdì Santo senza arrivare mai alla Domenica di Pasqua.
Così come ogni paese ha il suo onorevole o amico d'onorevole, simboli borbonici o papalini sopravvissuti, loro sì, a terremoti, pestilenze e governi. Ci furono anche liberatori che passarono da lì durante le guerre di tutti i tempi, ma solo perché era l'unica strada per arrivare a Roma.
Ma qui ogni viso nuovo potrebbe essere quello di chi libera dal predecessore, anche se tutti sanno che in fondo solo il cristomorto del Venerdì Santo è quello che aiuta davvero, forse perché anche lui è morto inseguendo un sogno di libertà.
Chi, meglio di uno che ha sofferto come loro?
Qui, dove tutto è nero e di pietra, le donne sposate e le madonne (solo le notti sono di stelle e di luna splendente), qui dove il mare è così cattivo che obbedisce e si fa attraversare solo dai santi, qui continuano a nascere uomini e a morire bestie.

giovedì 9 luglio 2015

Kim Jong-un: un uomo, un mito

si, avete ragione, è un fotomontaggio, però...
Oggi era in programma un altro post, di tutt altro tenore e contenuto, ma vi dovete sorbire questo, estemporaneo e molto... estivo.
Estivo nel senso di improvvisato, breve e scanzonato(rio).
Riflettevo, con quel neurone che il caldo di questi giorni ha risparmiato dall'intorpidimento, che in fondo il famoso dittatore sudcoreano Kim Jong-un dovrebbe essere il nostro idolo, il nostro mentore, la nostra musa ispirativa.
Mi spiego, anche per non essere preso per un politico di lunga data o un pazzo feroce (che, in fondo, oggi come oggi non fa differenza)
Quante volte in una discussione tra amici al bar o in qualche coda alla posta o in banca abbiamo sentito gente dire (parlando di un qualsiasi argomento: dalla nazionale di calcio alla politica, dall'alta economia ai programmi televisivi): non capisci niente, questo è così!; se si facesse come ti dico io, vedi come funzionerebbe tutto!; ti dico io come stanno veramete le cose! Ma, ammettiamolo! noi stessi abbiamo sempre la soluzione pronta, ed è sempre la migliore.

Ebbene,  finalmente c'è qualcuno che incarna i nostri sogni.
Cosa fa l'amico Kim? Visita un acquario, si commuove alla vista di indifese tartarughine che soffrono e fa punire il direttore della struttura perché brutto e cattivo.
quest'aeroporto non mi piace pe' niente...
Sempre Kim un giorno porta la giovine e graziosa moglie a visitare il nuovissimo aeroporto, vanto del suo indiscusso genio produttivo e fa una scoperta: l'aeroporto non gli piace! È brutto, non fa trasparire al meglio la sua grandezza e onnipotenza.

Quindi? Semplice: l'architetto è costretto (diciamo così) a cancellarsi dall'albo professionale per sopraggiunta cessazione di vita.
E ancora. La sua ex comincia ad essere ingombrante, lo fa sembrare un libertino, lui uomo di statura e di stato, anzi lo stato lui stesso. Niente paura. Hyon (questo il nome della fanciulla) cantante della Pochonbo Electronic Ensemble, gruppo che canta la propaganda di regime con brani in salsa rivoluzionaria, perde la voce. E non solo. 
Insomma, siamo davanti a qualcuno che pensa, vuole e fa.
Che non si limita a discutere davanti ad un crodino al bar sulla formazione della nazionale di calcio, ma l'indomani telefona a Conte e nella finale di coppa del mondo in campo scende chi ha detto lui.
Che se ha deciso che bisogna uscire dall'euro, manda una mail ad Angela Merkel e la cancelliera d'acciaio vestita di rosa confetto si scioglie in lacrime e obbedisce.
L'ho detto all'inizio e lo ripeto: per ognuno di noi Kim, un uomo, un sogno, un ideale. Un mito.
(Spero che abbiate capito la sottile ironia del post. Anche se forse per qualcuno potrebbe essere una realtà. Qualcuno di voi ha per caso un poster di Kim in cameretta?)

L'oste Juan

martedì 7 luglio 2015

Della Fulvia GT, grigia, e del riccio di caffè

Oggi si parla di altra Atene, ma questi erano buonissimi!
Lo devo confessare: sono molto vanitoso...
Lo dico, ma sottovoce, perché me ne vergogno.
È quasi come fosse un peccato, nel senso etico del termine; e forse lo è.
Dico questo perché i commenti di Massimiliano al mio post Le babbucce di Neil Armstrong hanno stuzzicato la mia vanità, o meglio mi hanno fatto capire che certe idee che ho in testa da un po' di tempo, e di cui ho parlato spesso in questo e nel vecchio blog, possono avere un futuro.
In particolare quella di un'autobiografia a cappella, senza accompagnamento strumentale, che tradotto dal mio sproloquio logorroico significa: fatta di soli ricordi sparsi, slegati da una storia: come tanti racconti sciolti che non fanno però un romanzo, pur essendo parte di un tutto: la mia vita.
E così ho pensato di ripostare un pezzo del vecchio blog, del lontano 2013, con altri ricordi e, forse, un altro stile.
Perché, sì, è vero: sono vanitoso!


Il tempo è diverso da quando io avevo vent'anni, oggi corre troppo veloce per i miei ritmi, fugge e mi sfugge. E mi chiedo se son io che non riesco a stargli dietro o, effettivamente, è lui che ha accelerato di brutto, nel bene e nel male. Guccini aveva appena pubblicato Eskimo e 100, Pennsylvania Avenue ed erano diventate subito la colonna sonora dei miei 18 anni.
 Io che sognavo Bologna piena di ragazzi in eskimo (io ce l'avevo verde!) che inneggiano a Marx-Lenin-Mao Tse Tung! e intanto festeggiavo il compleanno col riccio di caffè* che faceva mia madre. Il riccio di caffè era buonerrimo, non c'erano altre parole. Si stava, io mio fratello e lei, un pomeriggio intero a sbattere insieme quantità industriali di burro e zucchero col tuorlo dell'uovo, intanto che dalla moka per 12 saliva l'afrore del caffè che doveva essere fortissimo, perché poi doveva andare a sposarsi col liquore che serviva ad inzuppare i savoiardi o, in alternativa, gli Athena rettangolari. Gli Atene, sì, proprio quelli nella scatola cubica in cartone giallo, da 5 chili. Il tutto spolverato alla fine con un frullato di mandorle e nocciole a coprire. Ma, per me, senza il cacao, assolutamente!

il riccio di caffè...
Ecco, i miei 18 anni li ho festeggiati così, davanti al riccio di caffè, nella nostra casa in montagna coi parenti vicini e lontani, come si faceva una volta.
Di quel giorno mi resta nella memoria l'odore del caffè e una foto, scattata davanti al maggiolino di mio zio, con in braccio una bimbetta piccolissima, che non ricordo nenche chi fosse, e un cane che, per quell'anno, ci tenne compagnia e che poi lasciammo alle sue scorribande nei boschi quando tornammo, a fine estate, a casa.
Prima? Prima, nella mia memoria, c'è una valigia di cartone telato, a quadratini piccoli bianchi e azzurri. Quella valigia ce l'ho ancora, in cantina, piena di spaghi, la maggior parte dei quali erano di mio nonno e di mio padre, che li aveva ereditati. Sì, conservo ancora gli spaghi, di tutte le misure e di tutte le qualità: canapa grezza, sisal bianco, cotone ecrù. E so distinguere ancora quelli di mio nonno, perché lui aveva l'abitudine di bruciacchiarne le estremità, in modo che non si sfilacciassero. Oggi, se devi fare un pacco compri un rotolo di scotch avana e in due secondi, zac!, la confezione è fatta. Allora dovevi conoscere l'arte di fare il nodo, preciso e stretto da diventare non scioglibile, e piccolo quasi da non vedersi. E poi, con lo stesso spago, facevi il manico. Ma anche qui dovevai conoscerne l'arte.
Ricordo quella valigia perché l'aspettavo, il mese di maggio di tutti gli anni, quando i miei nonni ci venivano a trovare. Si andava, io mio padre e mio fratello, alla stazione a prenderli, arrivavano col rapido delle 14; mia madre restava a casa a preparare da mangiare. E io aspettavo di vedere quella valigia spuntare dalla porta della carrozza, in mano a mio nonno, che scendeva per primo dal predellino, poggiava a terra la valigia e porgeva una mano a mia nonna, per aiutarla a scendere. La valigia di mia nonna era più piccola, dello stesso materiale, ma a quadrettini marroni e neri, e anche questa ce l'ho ancora. Poi si andava tutti a casa, con la Fulvia GT grigia, quella colla leva del cambio lunghissima e il contachilometri che ruotava su se stesso.**

Un volante storico. La lucetta rossa era del freno a mano.
E io sempre lì ad aspettare che, arrivati a casa, quella valigia si aprisse e spuntasse fuori non una macchinina, una confezione di lego o qualche soldatino (per inciso: non ho mai giocato coi soldatini! forse la guerra mi faceva schifo sin d'allora!), ma una busta di plastica piena di... nespole, le nespole del giardino dei nonni! E alla fine del pranzo di benvenuto, inevitabilmente, si mangiavano quelle nespole, buonissime, col loro doppio nocciolo chiuso nell'involucro e la buccia vellutata. Quell'albero oggi non c'è più. Mio zio, che aveva ereditato la casa, fu costretto a tagliarlo per non ricordo quale motivo.*** Ma d'altra parte non ci sono più neanche i miei nonni; e neanche mio zio, un brav'uomo che si è goduta la sua breve vita, senza farsi mancare niente di tutto ciò che poteva rendergli, onestamente, migliore l'esistenza.
Stamattina, prima di aprire il negozio, sono stato in frutteria, a comprare mele e cetrioli e le ho viste: le nespole. Chissà se, oggi a pranzo, avranno lo stesso sapore di quelle dei miei nonni.
E poi... e poi, era il 1979, anzi per la precisione 29 agosto 1979, un viaggio in auto, sempre con la Fulvia grigia.
Ma questo ve lo racconto la prossima volta. Forse.


L'Oste Juan
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* la ricetta era più o meno questa, personalizzata come ogni buona cuoca sa fare.
** Quella che mio fratello ha poi usato fino all'ultimo respiro, fino a quando, ormai piena di ruggine, non si riusciva ad aprire neanche il cofano posteriore. In quale fosso riposa adesso, Giova? (aggiornamento delle 11,30: ho saputo dal diretto interessato (mio fratello) che l'auto è stata rottamata a Napoli, dopo che "qualcuno" aveva fuso il motore facendola andare senz'acqua nel radiatore. RIP)
*** Sempre grazie alla memoria di mio fratello (ma perché non le scrive lui, 'ste cose?) ho ricordato che l'albero fu abbattuto perché dovettero rifare le fondamenta del marciapiede del giardino. E ricorda ancora lui (ed io a ruota) che in quelle aiuole crescevano, tra le altre, delle piante di peperoncino rosso piccante da paura!

lunedì 6 luglio 2015

Arcani Vs Bacone - finale (racconto)


"... e salutateci al Papa!" Non questo!

E questa volta è veramente finito!


Arcani Vs Bacone

La porta si apre.
I due romani sono ormai sulle sedie da ore. Davanti a loro, sul tavolo, una decina di bicchierini di plastica per il caffè, vuoti. Andrea ha un groppo in gola, Giorgio è meno teso ma ha un tic sospetto all’occhio destro.
“Uagliò, jatavenne” taglia corto Bellagamba.
“Eh?”
“Tradotto in italiano?”
“Potete andare”.
“Ma non doveva interrogarci… Cioè, possiamo proprio andare via? Nel senso che…”
“Nel senso che vi alzate e ve ne andate. Siete liberi!”
Giorgio comincia ad apprezzare le delicate sfumature dell’accento partenopeo. In fondo i leghisti sbagliano ad avere pregiudizi verso una persona solo perché parla napoletano.
Arcani è disorientato. Non ci crede. “Ma possiamo andare però siamo sospettati di qualcosa, oppure…”
“Oppure niente. Jatavenne a Roma e salutateci al Papa!”
I due ex sospettati di omicidio, ex riscossori di crediti insoluti, ex futuri carcerati, si avviano verso l’uscita del commissariato.
“C’è stato uno sbaglio sicuramente”, cerca di darsi una spiegazione il detective non appena hanno varcato la soglia dell’edificio.
“André, ma vedi un po’ de annattene affanculo! Che te dispiace? Preferivi che c’arrestavano? Se proprio me tocca ar gabbio almeno vojo esse’ colpevole! Finì dentro senza avè fatto un cazzo nun me va propio!”
“No, è che qualcosa non quadra!”
“Ma che quadra e tonda! Ce n'annamo e basta!” ribadisce Giorgio. Poi si blocca. “Eh no! Aspetta un po'. Ce devono ridà i telefonini, quelli. Se li so' scordati!” e torna indietro verso la caserma.
“Ma dove vai, stai fermo! Magari ci ripensano e ci arrestano di nuovo! Coi puffi non si scherza! Ma hai visto che facce c'erano là dentro?”
Giorgio non desiste, almeno fino al momento in cui Arcani lo afferra per la sciarpa della Lazio ancora al collo e lo tira via come un elefante al guinzaglio.
“E andiamo, cazzo! Accidenti a me e a quando mi sono fatto trascinare qui!”
“Ahio André, me fai male! Vabbé, vengo, nun c’è bisogno che me strangoli! Però er Nokia, porca miseria...!”
“Te lo ricompro uguale quel catorcio! Pensa a me, il Samsung l'avevo pagato un botto! Ma non mi importa, glielo regalo. Voglio solo tornare a casa prima che cambiano idea”.

IX
Il piazzale davanti alla stazione di polizia è deserto, la scenetta non è stata vista da nessuno.
Eccezion fatta per quel particolare nessuno chiamato Francesco Bacone. Affacciato alla finestra, il commissario è stato spettatore segreto dell'eloquente teatrino romanesco. Manca solo l'applauso agli inconsapevoli attori, prontamente rimpiazzato da un toc toc alla porta.
L'agente Garrone Marika sembra una scolaretta pronta a rivolgere una domanda assai imbarazzante al preside dopo che il bidello Geremicca non le è stato di aiuto.
“Mi scusi se la disturbo commissario, mi serve una consulenza”.
“Prego”.
“Allora, ecco... Se per ipotesi – solo per ipotesi eh! – venisse sequestrato un oggetto a un fermato, e accadesse che questo oggetto fosse ... smarrito, oppure rotto...”
“Per caso ti riferisci a un cellulare?” la interrompe Bacone.
“Come l'ha saputo?”
“Ho i miei segreti” scherza il commissario muovendo fuggevolmente gli occhi in direzione della finestra. “Comunque, non ho idea di quali punizioni corporali vengano inflitte ai distruttori di reperti sequestrati. Ma tanto quei due non torneranno indietro per chiedere la restituzione dei cellulari”.
“Ne è sicuro?”
In risposta riceve un cenno rassicurante con la testa.
“Grazie commissario”.
La ragazza esce e un uomo entra. È Bellagamba, che gli domanda se è possibile scambiare due parole privatamente.
“Certamente Gennaro, siediti. Che c'è?”
“Commissà, io ve lo devo chiedere... “
“Che cosa?” s'incuriosisce Bacone.
“Ma voi, ce l'avete tutti con me?”
Bacone trasecola.
“È da stamattina che ve la intendete di nascosto e mi tenete all'oscuro dei segreti vostri, come nu fesso”.
“Gennà, spiegati meglio perché io...”
“Ho visto come guardavate a Geremicca quando siete arrivato. L'avete detto solo a lui che vi prendevate una giornata di ferie!”
“Ma che vai a pensare! Sapeva solo lui delle ferie perché l'ho deciso all'ultimo momento, ieri sera tardi, e di turno c'era Nino!”
“E quell'occhiata che vi siete scambiati?”
“Ma è stato lui a guardarmi in modo interrogativo, e io onestamente non ho capito neanche il perché! Stai tranquillo, non c'è nessun complotto ai tuoi danni.”
“E allora, se non ci sono segreti: mi posso permettere di chiederle come mai oggi dovreste essere in ferie?”
Bacone rimane un attimo fermo a stropicciarsi i baffi. “Gennà, lo sai che me lo sto chiedendo da quando sono entrato qua stamattina? Ma ancora non me lo ricordo.”
“Ah...”
“Sì, lo so che è strano ma è così: me lo sono dimenticato. Eppure ci doveva essere un motivo...”
“E allora, mi sa che c'è una persona sola che vi può rinfrescare la memoria.”
“Tu dici?”
“Per forza!”
Bacone alza la cornetta e compone il solito numero:
“Nino, tu te lo ricordi perché io, oggi, dovrei essere in ferie? Ah... ah... Opporcamiseria! Hai ragione! Vado subito!”
Gennaro vede il commissario prendere al volo il loden e il cappello dall'appendiabiti e scappare via come un centometrista. Ma perché tutto questo?...
La curiosità lo rode, roba che neppure Marika e Giusy messe assieme sarebbero così ansiose di scoprire cosa c'è dietro. Evidentemente la curiosità non è solo ffemmena. E a dire il vero ci sarebbe il modo per saziarla...
Ma l'agente scelto Bellagamba non si darà mai il permesso di chiedere a Geremicca la rivelazione di un sacro segreto commissariale. È una questione di stile. Anzi, qui sono in ballo addirittura divergenti concezioni teologiche.
E il terzo mistero di Bacone resterà tale.